STORIA DI CIMITILE

scarpisasanti

Scarpisasanti. 

Letteralmente: calpestatori di santi.  Ma no, niente di blasfemo. È così che si definiscono gli abitanti di Cimitile, nei pressi dell’antica sede vescovile di Nola. Dal latino cœmeterium, il piccolo paesino che oggi conta poche migliaia di abitanti è stato un tempo sede di eventi legati alla vita, piuttosto che alla morte, nonostante il nome. Che deve, infatti, alla sua eccezionale capacità di sfornare testimoni della fede, talmente tanti, nelle loro sepolture, da poterli letteralmente calpestare. 

Ed eccone spiegato il nome. Lugubre? No, piuttosto monumentale. Come nelle Basiliche paleocristiane, prodigioso sito archeologico della tarda romanità, ospitante, tra le altre cose, il campanile più antico della cristianità. Quell’entroterra, in epoca antica via vai di viaggiatori sulla Via Appia, con le vicine stazioni di Capua e Napoli, non a caso è divenuto appunto un bazar delle fedi e dell’umanità, trasformando con eccezionale inventiva le tradizioni scaramantiche pagane in riti folkloristici capaci di attirare l’Unesco e, al contempo, accogliere uomini della nuova epoca cristiana da ogni parte del mondo al tempo conosciuto: l’Impero. Il primo fu proprio San Felice, figlio di un mercante siriano trasferitosi in Campania nel III secolo. Fu stretto collaboratore del vescovo di Nola Massimo, ed è detto anche "In pincis" per l’omonimia con il San Felice di Nola, vescovo. Cresciuto in una terra già cristianamente fertile e fattosi sacerdote, soffrì nelle persecuzioni di Diocleziano e — narra la tradizione — fu liberato da un angelo che lo salvò dalla morte, pur se è ricordato come martire. 

E, addirittura, la sua tomba fu definita ara veritatis, per il potere miracoloso di indurre a dire sempre la verità in sua presenza. Modello di umiltà, rifiutò il posto da vescovo di Nola per vivere in povertà fino alla fine dei suoi giorni. A raccontare la sua storia è il biografo, e a sua volta santo, Paolino da Nola (IV-V secolo). Questi, invece, figlio di un funzionario dell’élite gallica, dotato dal padre di un’eccellente istruzione nella retorica e avviato alla carriera istituzionale, trovò ben presto nella fede un motivo di cambiamento. 

Ma soprattutto l’intuizione che il futuro di un mondo romano in disfacimento (la Gallia era già mezza dissolta dall’Impero) era l’unità del cristianesimo. Ma ci arrivò per gradi. La tradizione vuole che, fattosi trasferire in Campania da Milano, con un gesto a metà tra paganesimo e cristianesimo, si tagliò la barba offrendola in ex-voto a San Felice. A Barcellona, invece, pare trovasse la fede con l’acclamazione improvvisa a sacerdote in una chiesa. Rientrato in Italia e conosciuto Sant’Ambrogio (che aveva battezzato uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, come Sant’Agostino), si dedicò alla religione. 

Ciò che certo esce fuori dalla tradizione è il merito poetico di San Paolino, pioniere della poesia romana antica spugnata nella fede cristiana, nei suoi carmi. Il verso più simbolico, forse, di questo passaggio dall’Antichità al Medioevo, scritto a Cimitile, è dal Carme XXXI: «Non voglio una casa ricca di vino, ho sete dell’acqua che dà luce». Nelle sue composizioni amò e celebrò la figura che gli era stata d’ispirazione: San Felice. Ed è ancora considerato tra i più importanti autori latini, non solo per la religione, ma per lo squisito valore letterario. 

Ma Cimitile ha continuato a far “strati” di santi nei secoli, con generazioni e generazioni di uomini e donne offerte alla religione. E in un tempo, fino a poche decine di anni fa, in cui l’istituzione religiosa significava ospedali, scuole, case di accoglienza, conservatori e tutto ciò che poteva salvare la vita di un uomo dalla fame e dall’ignoranza. Come Antonio Cece, vescovo di Aversa, nato a Cimitile nel 1914 e arrivato a prender parola nel Concilio Vaticano II. Ma ha avuto anche i suoi “santi laici”, per la cultura. 

Come il Principe di Cimitile, ultimo aristocratico che nel Settecento tentò la realizzazione di una colossale statua equestre di Carlo III, da collocarsi nell’attuale Piazza Dante di Napoli. Tra paganesimo romano e presente, qualcosa resta ancora, di forte. È il culto del servo di Dio Giovannino, fanciullo cimitilese morto in tenera età e sepolto nella cappella del locale cimitero. Nella sua tomba, accanto al corpo, non stupisce vedere di tanto in tanto bottiglie e vivande: pare che qualcuno offra ancora al santino le libagioni funebri. Con intenzioni diverse, certo, ma esattamente come i riti funebri di millenni addietro.

A cura di Gianpasquale Greco.

Planimetria del centro storico

1- ingresso al complesso basilicale 

2- arco santo

3- chiesa di S. Maria degli Angeli

4- palazzo Albertini

5- cappella di S. Luigi

6- parrocchiale di S. Felice

7- chiesa dell'Addolorata o dei Morti

8- Palazzo Filo della Torre

9- Municipio
img313jpg