IL CULTO DI SAN GENNARO A CIMITILE

e la tradizione della fornace

"IL CULTO IANUARIANO A NOLA", prof. Carlo Ebanista

1. Le fonti agiografiche e la tradizione sul martirio di san Gennaro a Nola

La più antica testimonianza della devozione per san Gennaro a Nola coincide con la prima attestazione del culto ianuariano. Nell’epistola indirizzata a Pacato, il presbitero Uranio narra che Paolino di Nola, tre giorni prima di morire (22 giugno 431), chiese improvvisamente a coloro che l’assistevano dove fossero i suoi fratelli Gennaro e Martino con i quali asseriva di aver da poco parlato. Stando al racconto di Uranio, l’episcopus simul et martyr e il Galliarum episcopus sono gli unici santi menzionati dal morente Paolino che, diversamente da quanto ci si aspetterebbe, non si rivolge al suo patrono Felice. Mentre Martino di Tours è citato più volte negli scritti di Paolino, l’unico santo campano a essere menzionato nelle sue opere, oltre ovviamente ai nolani Felice, Massimo e Quinto (degli ultimi due, però, ricorda solo la figura, senza accennare al culto), è Prisco di Nocera. Lo spazio che Uranio riserva a Gennaro è forse una spia della forte eco che ebbe la traslazione dei resti del santo, effettuata dal vescovo di Napoli, Giovanni, il 13 aprile di un anno prossimo al 431. Nell’ultima parte dell’epistola Uranio narra l’apparizione del defunto Paolino allo stesso Giovanni tre giorni prima della sua morte(avvenuta il 2 aprile 432), quasi a volere sottolineare i legami che univano i due vescovi, a riequilibrare i rapporti tra le loro Chieseo, piuttosto, a equiparare il rispettivo ruolo di “impresari” dei santi Felice e Gennaro. Pur ammettendo che Uranio, oltre a informare Pacato sugli ultimi momenti della vita di Paolino, abbia voluto promuovere il culto ianuariano, la sua testimonianza rappresenta una prova indiscutibile della venerazione che, nella prima metà del V secolo, Nola riservava a san Gennaro. L’attestazione degli antroponomi Ianuarius eIanuaria documentati da tre epigrafi nolane della prima metà del VI secolonon può, invece, costituire un riscontro della diffusione del culto ianuariano a Nola. D’altra parte, se si eccettua l’iscrizione in greco di una Ianouaria sepolta tra III e IV secolo nelle Catacombe di San Gennaro a Napoli, i due nomi non sono attestati nelle epigrafi funerarie delle altre diocesi campane, laddove nell’onomastica cristiana tardoantica ricorrono con una certa frequenza, come indica, tra l’altro, l’epistolario di Gregorio Magno.

Nell’alto medioevo, quando si venne costituendo il dossier agiografico di san Gennaro, si sviluppò la credenza che la prima parte della passio Ianuarii avesse avuto luogo a Nola, dove risiedeva il governatore Timoteo. Questa tra- dizione, di cui manca ogni riflesso nel Martirologio geronimiano, non è registrata negli Acta Bononiensia (BHL 4132) che furono composti tra VI e VII secolo e costituiscono la più antica redazione della passio Ianuarii a noi pervenuta. Al passaggio di Gennaro per Nola non fa riferimento neanche il martirologio di Beda il Venerabile († 735)che attinge proprio dagli Acta Bononiensiae che servì da modello per gli altri martirologi storici di età carolingia.

Gli avvenimenti nolani sono descritti, sia pure con lievi differenze, dagliActa Vaticana, dalla passio di Giovanni diacono, dalla leggenda Ad gloriam laudemque, dal testo In Campania civitate Puteolana, dagli Acta Puteolana, dagli atti di Reichenau, altrimenti detti Tempore quo Karus, dall’inedita passio di Kynzwart e dalla versione greca dei Vaticana. Nessun accenno a Nola si riscontra, invece, nella leggenda di Ranieri l’Esiguo, nota anche come Strenuissime (BHL 4137), e nell’Encomio di S. Gennaro contenuto nel codice Patmiaco 254. Senza soffermarmi sui problemi connessi alla datazione dei singoli testi e alle reciproche dipendenze, passo brevemente in rassegna le differenti versioni degli episodi nolani della passio Ianuarii.

Gli Acta Vaticana (BHL 4115-4119), composti tra VIII e IX secoloe caratterizzati dalla presenza di alcuni tra i piuù comuni loci agiografici, raccontano l’incontro a Nola di Gennaro con Timoteo che, fatto imprigionare il santo, lo fece gettare in una fornace ardente dalla quale, però, Gennaro uscì illeso; il governatore ordinò di recidergli i tendini e infine lo condusse a Pozzuoli legato davanti al suo carro, insieme al diacono Festo e al lettore Desiderio. Anche la passio (BHL4134-4135) scritta da Giovanni diacono agli inizi del X secolo, utilizzando le notizie fornite dagli Acta Bononiensia e dai Vaticana, accenna, sia pure succintamente, all’episodio della fornace e al trasferimento da Nola a Pozzuoli insieme a Festo e Desiderio. Negli atti che dalle prime parole dell’incipit prendono il nome di Ad gloriam laudemque (BHL 4120-4123) si narra della prigionia nolana di Gennaro e dell’episodio del carro, ma non della fornace. Quest’ultimo tormento, invece, è menzionato, insieme alla vicenda del viaggio da Nola a Pozzuoli, nel testo a uso liturgico In Campania civitate Puteolana (BHL 4136). Anche gli Acta Puteolana (BHL4133) accennano brevemente agli episodi della fornace e del carro.

Degli atti di Reichenau, conosciuti come Tempore quo Karus, ci sono giunte due versioni (BHL 4124-4126, 4127-4131) tra loro molto simili e largamente ispirate agli Acta Vaticana; trasmesse da codici databili per lo più al XIII-XIV secolo (anche se della seconda versione si conosce un manoscritto dell’XI-XII), registrano l’episodio della fornace, della recisione dei tendini e del carro, analogamente all’inedita passio conservata nella biblioteca del castello di Kynzwart nella Repubblica Ceca. La traduzione greca (BHG 773y) degli Acta Vaticana, che viene assegnata al X secoloo al X-XI, registra il tormento della fornace, ma omette l’episodio del trasferimento da Nola a Pozzuoli davanti al carro di Timoteo. L’Encomio di S. Gennaro (BHG 773z) contenuto nel codice Patmiaco 254 (datato tra X e XI secolo), pur essendo strettamente imparentato con gli Acta Vaticana, non fa invece riferimento a Nola, ma ambienta il martirio soltanto a Pozzuoli; tra i tormenti inflitti a Gennaro dal governatore Timoteo vengono, tuttavia, menzionati la fornace e la recisione dei tendini, che le altre fonti agiografiche assegnano concordemente a Nola.

L’inserimento della vicenda nolana nella passio Ianuarii ha indotto Franchi de’ Cavalieri a supporre che il compilatore degli Acta Vaticana non fosse “estraneo” alla città di Nola. In mancanza di elementi che possano avvalorare l’ipotesi, rimangono tutte da appurare le ragioni per cui l’agiografo inserì nel racconto il passaggio di Gennaro per Nola. Privi di ogni valenza storica, com’è stato più volte ribadito, gli episodi nolani della passio Ianuarii sembrano attestare che, all’epoca della stesura degli Acta Vaticana (VIII-IX secolo), si fosse già sviluppata la credenza che identificava Nola con un luogo di martirio dei primi cristiani. Riflessi di questa leggenda si trovano anche nella passio di san Felice vescovo di Nola e in quella delle sante Archelaide (o Archelaa), Tecla e Susanna.

Tramandata da manoscritti di provenienza spagnola (risalenti a non prima del IX secolo ovvero databili al X secolo), la passio Felicis episcopi (BHL 2869) riferisce che il santo, arrestato per ordine del preside Marciano, venne prima gettato nella fornace (turrem sine tecto), da cui uscì illeso, e quindi fu decapitato insieme a trenta compagni. Sebbene si tratti di loci agiografici piuttosto comuni, le analogie con la passio Ianuarii tradita dagli Acta Vaticana sono molto evidenti, soprattutto se si considera la comune ambientazione a Nola. Diversamente da quanto è stato ipotizzato, la passio di san Felice vescovo non è anteriore ai martirologi storici, ma rappresenta un ampliamento delle notizie da questi tramandate; il carattere fabuloso dei miracoli attribuiti al protovescovo nolano denuncia una compilazione molto tarda che forse non è estranea alla lettura degli Acta Vaticana. La figura di san Felice vescovo viene ritenuta dalla critica uno sdoppiamento dell’omonimo presbitero celebrato negli scritti di Paolino di Nola; questi, del resto, non fa alcun riferimento al protovescovo Felice né ricorda l’esistenza di martiri nolani, oltre a san Felice presbitero che peraltro definisce sine sanguine martyr. L’anonimo redattore della Passio Felicis episcopi, analogamente al compilatore degli Acta Vaticana, non fornisce elementi che consentano di collocare con precisione i luoghi del martirio nell’ambito della città di Nola. Qualche maggiore dettaglio si rinviene, invece, nella leggendaria passio delle sante Archelaide (o Archelaa), Tecla e Susanna (BHL 660), nota grazie a copie redatte tra XVI e XVIII secolo, ma composta verosimilmente nel X secolo. Il racconto riferisce che le tre sante, per sfuggire alla persecuzione degli imperatori Diocleziano e Massimiano, giunsero a Nola, stabilendosi poco lontano dalla città; imprigionate per la loro fede dal preside Leonzio e con- dotte a Salerno, vennero inutilmente sottoposte a vari tormenti, prima di essere trafitte con la spada «foras civitatem Nolanensem miliario uno». Nella Translatio a Salerno (BHL 661) si legge, invece, che i corpi delle sante giacevano «foras civitatis Nolae stadio uno».

Le indicazioni topografiche fornite dalla passio e dalla translatio delle tre martiri rappresentano un chiaro riferimento al santuario extraurbano sorto sulla tomba di san Felice presbitero, a poco più di 1,5 km dal foro dell’antica città di Nola. Proprio la fama del santuario potrebbe essere all’origine della scelta del redattore degli Acta Vaticana di inserire gli episodi nolani nella Passio Ianuarii, anche se non va sottovaluta l’influenza esercitata dalla testimonianza di Uranio che lega fortemente la figura di Gennaro a quella di Paolino di Nola. D’altra parte il santuario, oggi ricadente nel comune di Cimitile, conobbe il momento di massimo splendore proprio all’epoca di Paolino che rappresenta, sotto ogni punto di vista, il vero genius loci: si devono a lui, infatti, la diffusione del culto di san Felice presbitero e la trasformazione del cimitero che ne aveva accolto le spoglie in un grandioso e frequentatissimo santuario. Nei suoi scritti Paolino non fa alcun riferimento all’esistenza della necropoli, ma tiene a precisare che il santo fu sepolto in una solitaria e profumata campagna. Le ricerche archeologiche hanno, invece, chiaramente dimostrato che il presbitero Felice venne deposto, all’interno del cimitero, in una tomba sub divo, intorno alla quale, a partire dal IV secolo, si svilupparono il santuario e l’insediamento che prese il nome di Cimiterium e quindi di Cimitile.

2. La venerazione per san Gennaro e il culto dei martiri nel santuario di Cimitile

Nonostante i Longobardi di Benevento, tra VIII e IX secolo, avessero trafugato il corpo di san Paolino e alcune reliquie di san Felice presbitero, il santuario mantenne intatto il suo prestigio e fu oggetto di cure e attenzione da parte dei ve- scovi di Nola; le fonti epigrafiche attestano in particolare i lavori promossi, tra IX e X secolo, dai presuli Lupeno e Leone III. A quest’ultimo, che fu consacrato da papa Formoso (891-896) e resse la cattedra nolana tra la fine del IX secolo e gli inizi del successivo, si deve, tra l’altro, la trasformazione di un mausoleo della necropoli tardoantica in cappella; il piccolo edificio, tuttora conservato, venne abbellito con un protiro e un ciclo pittorico.

Oltre a episodi tratti dalla vita di Cristo e di san Pietro, sulle pareti della cappella sono raffigurati i santi Simeone stilita, Anastasia, Cosma, Damiano, Pantaleone, Caterina, Gennaro, Benedetto e due personaggi non identificabili. Gennaro, analogamente agli altri santi, è rappresentato frontalmente, su fondo grigio, ed è individuato dall’iscrizione IanuARIYdipinta in verticale sul lato destro del pannello. Il volto giovanile imberbe, inquadrato dall’aureola gialla e caratterizzato dalla tonsura, e il pallio sulla casula marrone corrispondono ai consueti caratteri iconografici del vescovo Gennaro, quali si rinvengono, tanto per citare un noto esempio, nell’affresco (IX secoloo X-XI) che, nelle Catacombe di Capodimonte, mostra il santo a lato di un monaco benedettino. Ubicata nello stipite della finestra che si apre sul lato nord della parete orientale della cappella cimitilese, l’effigie di san Gennaro occupa una posizione alquanto marginale, analogamente alle immagini dei santi Benedetto, Cosma e Damiano; maggiore visibilità hanno, invece, le raffigurazioni degli altri personaggi. Sebbene non vada esclusa la possibilità di una disposizione gerarchica, occorre rilevare che le immagini dei santi, fatta eccezione per quelle di Caterina e della santa a essa adiacente nonché di Pantaleone e del personaggio raffigurato alla sua sinistra, occupano gli spazi più angusti della cappella, ove non era possibile dipingere le scene cristologiche o petrine che necessitavano di superfici maggiori.

L’immagine di san Gennaro attesta la vitalità del culto ianuariano a Cimitile/ Nola pressappoco nell’epoca in cui Giovanni diacono si accingeva a compilare la sua passio Ianuarii. La lacunosità dell’effigie non consente di accertare l’eventuale presenza di attributi o di riferimenti agli episodi nolani narrati negli Acta Vaticana e nei testi da essi derivati. La circostanza che le epitomi presenti nei martirologi altomedievali sono conformate al racconto degli Acta Bononiensia(ambientato esclusivamente a Pozzuoli) sembra, tuttavia, escludere che le vicende nolane della Passio Ianuarii raccontate negli Acta Vaticana possano aver contribuito allo sviluppo del culto ianuariano a Nola, come ha supposto Hans Belting che peraltro collega l’immagine di san Gennaro all’ambiente beneventano. Sebbene la compresenza di elementi stilistici di matrice bizantina e beneventana negli affreschi commissionati dal vescovo Leone IIIrifletta chiaramente l’ubicazione del santuario di Cimitile in un’area a lungo contesa dai duchi napoletani e dai principi longobardi, la considerevole presenza di santi orientali sulle pareti della cappella sembra rinviare piuttosto all’ambiente culturale partenopeo.

Se si escludono Simeone stilita e Benedetto (esponenti di rilievo del monachesimo orientale e occidentale), gli altri santi (Anastasia, Cosma, Damiano, Pantaleone, Caterina, Gennaro) raffigurati sulle pareti dell’oratorio cimitilese sono tutti martiri. L’edificio d’altra parte è tuttora noto come Cappella dei Santi Martiri, in relazione al culto del sangue dei martiri che è documentato dalla fine del XVI secolo, allorchè l’oratorio era conosciuto come l’«Annunziata dove sono le cinque pertose». Quest’ultima denominazione era collegata alla presenza di un marmo con cinque foriche costituiva il fondo di una fenestellaricavata nella parete nord della cappella. Rimasta in situ sino al 1958, la fenestella costituiva l’accesso a un pozzetto per reliquie che era stato ricavato tamponando parzialmente un arcosolio funerario pertinente al primitivo utilizzo dell’edificio.

Un’epigrafe cinquecentesca murata nella lunetta del protiro riferisce che la cappella «de SS. Martiri [...] è un intero Pozzo pieno de Corpi e Sangue delli sodetti e si sente bollire ne i loro Natali. Una donna incredula vi calò la Corona e venne su piena di Sangue, le cui gocciole incavorno il marmo». Tuttora conservato all’interno della cappella, a differenza della lastra con i cinque fori, questo “marmo” è inglobato in una struttura muraria che si addossa alla parete meridionale dell’edificio ed è posteriore agli affreschi del X secolo; una piccola grata di ferro protegge il punto in cui sarebbe caduta la goccia di sangue. La tradizione risale almeno agli inizi del XVI secolo, se non alla fine del precedente, se bisogna dar credito alla testimonianza rilasciata negli ultimi anni del Cinquecento dal settantenne Gaspare Griffo di Nola «che antiquam.te era tenuto in gran veneratione [...] lo puzo delle 5 p(er)tosa et sangue dela corona di quella donna».

Appare, dunque, evidente, che l’origine del culto non ha nulla a che vede- re con la corrente devozionale nata a Roma, alla fine del XVI secolo, intorno alla questione dei “vasi di sangue” trovati nelle catacombe; non esistendo, però, prove di un legame con la venerazione per il sangue dei martiri documentata in Occidente sin dal V secolo, bisogna ricercare le origini del culto locale in rapporto alla diffusione in Campania di questo particolare tipo di reliquie. Faccio, peraltro, rilevare che a Cimitile nei pressi del “pozzo” erano raffigurati san Pantaleone e san Gennaro che, com’è noto, sono celebri per la liquefazione del loro sangue, conservato rispettivamente a Ravelloe Napoli. L’episodio della “donna incredula” che immerge la corona nel “pozzo” richiama quello del devoto romano che, recatosi alla tomba di santa Patrizia a Napoli, strappò un molare dal cranio della santa, causando la fuoriuscita di sangue che venne raccolto in due ampolle dalle monache del monastero e, tra la fine del XV secolo e gli inizi del successivo, cominciò a sciogliersi in occasione della sua festività (25 agosto). A Cimitile l’origine della venerazione per il sangue dei martiri va messa in relazione con la credenza, anch’essa attestata dalla fine del Cinquecento, che il santuario fosse sorto su un’area di martirio dei cristiani, di cui rimanevano le carceri, i luoghi del supplizio e le sepolture.

Non abbiamo elementi per collegare questa tradizione a quanto gli Acta Vaticana narrano a proposito di san Gennaro ovvero alle notizie contenute nelle passiones di san Felice vescovo di Nola e delle sante Archelaide (o Archelaa), Tecla e Susanna. Certamente un ruolo non secondario sarà stato svolto dalle evidenze archeologiche (in particolare gli ambienti poco illuminati e sottoposti al piano di calpestio, le numerose epigrafi funerarie e le sepolture disseminate un po’ ovunque) che, male interpretate, dovettero contribuire all’identificazione del santuario ubicato alle porte di Nola con il luogo ove i cristiani venivano martirizzati e sepolti.

Sull’immaginario collettivo, oltre alle fonti scritte, influirono verosimilmente anche le testimonianze iconografiche: mi riferisco, ad esempio, al S. Gennaro nella fornace raffigurato nel duecentesco pluteo con Storie di S. Gennaro, Sansone e santi guerrieri che si conserva nella Basilica di Santa Restituta a Napoli; la critica è indecisa se l’artista si sia ispirato agli Acta Vaticanao alla passio di Giovanni diacono. A partire dal XIII-XIV secolo, allorché cominciarono a essere impiegati per comporre i leggendari abbreviati, gli Acta Vaticana conobbero una grande fortuna e, senza dubbio, contribuirono a far conoscere a un pubblico sempre più vasto gli episodi nolani della Passio Ianuarii. L’epitome di Vincenzo di Beauvais († 1264), che per la prima volta offre una testimonianza improntata agli Acta Vaticana, narra gli episodi della fornace, della recisione dei tendini e del trasferimento di Gennaro, Festo e Desiderio a Pozzuoli dinanzi al carro di Timoteo. Agli Acta Vaticana s’ispira anche Pietro Calo († 1348) che racconta l’episodio della fornace e del carro. Alla fornace, alla recisione dei tendini e al carro fanno riferimento Pietro de’ Natalibus († 1400 circa), che addirittura trasforma Eutiche e Acuzio in cittadini nolani, e Jean Gielemans († 1487).

Nonostante la diffusione dei leggendari abbreviati e degli Acta Vaticana, a Nola il culto ianuariano non varcò le soglie dell’alto medioevo. Nel trecentesco Breviario Nolano, infatti, non solo manca l’ufficio di san Gennaro, ma il martire non è registrato nemmeno nel calendario di settembre, a testimonianza che la Chiesa locale non gli tributava un particolare culto liturgico. Nel Breviario Nolano l’unico riferimento a san Gennaro si rinviene nell’ufficio di san Paolino, dove nelle lectiones VII e VIII, viene trascritto il passo dell’epistola in cui Uranio accenna alla figura dell’episcopus simul et martyr. Nel basso medioevo il legame tra san Gennaro e la diocesi di Nola, per quanto mi risulta, è attestato unicamente dall’intitolazione di una chiesa di Avella, menzionata in un documento non datato, ma che risale all’XI o al XII secolo; la chiesa, che allora era «diruta», scomparve dopo il 1308-10, allorché è registrata nelle rationes decimarum.

Agli inizi del XVI secolo l’assenza del culto ianuariano a Nola è confermata dalla testimonianza di Ambrogio Leone che, pur trattando della famiglia nolana degli Ianuarii, non fa alcun accenno al santo, come invece ci si aspetterebbe. Nella prima metà del Cinquecento o poco dopo, su un altare ubicato sul lato meridionale della navata centrale della Basilica di San Felice a Cimitile, fu eseguito un affresco raffigurante la Vergine con il Bambino tra santi e angeli; nel riquadro superiore sinistro venne dipinta l’immagine di san Gennaro. Il santo, rappresentato di tre quarti, indossa mitra e piviale giallo e regge nella mano sinistra il pastorale e un libro su cui, secondo l’iconografia documentata a partire dal XVI secolo, sono poggiate le due ampolle del sangue. La mancanza di riferimenti agli episodi nolani del martirio di san Gennaro riconduce il dipinto alla particolare devozione del committente piuttosto che all’esistenza di un culto locale legato alla tradizione agiografica degli Acta Vaticana. Non a caso l’inedito manoscritto di fine Cinquecento, che è conservato nella Biblioteca Oratoriana dei Girolamini a Napoli, non fa alcun riferimento a san Gennaro e ai presunti luoghi nolani del suo martirio, mentre menziona ripetutamente il sangue dei martiri e i numerosi santi (talora anche inesistenti) che erano sepolti e venerati nel santuario di Cimitile.

I «multa corpora sanctorum» avevano suscitato grande interesse sin dal secolo precedente, come attesta Joampiero Leostello da Volterra che fu presente alla visita che il duca di Calabria (futuro re Alfonso II) effettuò a Cimitile il 27 ottobre 1489. Al gran numero di sepolture di santi fa riferimento anche l’epigrafe che Francesco Albertini, arcidiacono della cattedrale di Nola e preposito di Cimitile dal 1530 al 1569, collocò sul cosiddetto “arco santo” che consentiva l’accesso al santuario. Il ruolo avuto da questo luogo durante le persecuzioni venne messo in risalto da Giovanni Antonio Summonte e Giulio Cesare Capaccio agli inizi del Seicento. A riprova del forte radicamento della tradizione, papa Paolo V, nella bolla Ad exequendum che indirizzò al vescovo e al capitolo di Nola nel 1607, definì il santuario «uno ex tribus sacris universis orbis Coemeteriis tot Sanctorum Martyrum sanguine consecrato». Fu proprio nel corso del Seicento che a Cimitile il culto dei martiri si consolidò in maniera significativa. Anteriormente al 1632, nella Basilica di San Felice venne scoperta l’«imagine di Maria Vergine dipinta nel muro, assai antica, col titolo di Santa Maria de’ Martiri». Sebbene nel 1644 la cappella «Ste Mariae de Martiribus» non fosse officiata, la festività della Madonna dei Martiri venne solennizzata sino al 1676. Dal canto suo la Chiesa nolana, come scriveva Andrea Ambrosini nel 1792, «da gran tempo» onorava con ufficio doppio i Santi Martiri il 30 ottobre.

Se l’Italia sacra di Ferdinando Ughelli contribuì a diffondere il mito della terra nolana consacrata dal sangue di innumerevoli martiri, l’attività predicatoria e divulgativa svolta da Carlo Guadagni, preposito di Cimitile dal 1675 al 1688, costituì un forte incentivo per la diffusione del culto dei martiri; grazie alle sue pubblicazioni e alle iscrizioni fatte affiggere all’ingresso del santuarioe lungo l’iter devozionale, si premurò di segnalare ai fedeli l’esistenza delle carceri, dei luoghi di supplizio, dei “pozzi” colmi del sangue dei martirie, naturalmente, della “fornace” in cui era stato gettato san Gennaro.

3. I luoghi del martirio di san Gennaro a Nola: tra erudizione e archeologia

Sebbene a Cimitile, come abbiamo visto, non manchino testimonianze del culto ianuariano tra tarda antichità e alto medioevo, la venerazione prese vi gore solo a partire dagli inizi del XVII secolo, quando fu scoperta una struttura muraria che venne interpretata come una “fornace” e quindi associata al martirio di san Gennaro. L’identificazione potrebbe essere derivata dalla particolare forma della fabbrica che ricordava la turrem sine tecto, in cui, come si legge nella passio Felicis episcopi, il martire fu gettato per ordine di Marciano. Non a caso gli eruditi locali del Settecento erano convinti che la “fornace” conservata a Cimitile fosse stata utilizzata prima per san Felice vescovo e poi per san Gennaro, laddove il canonico nolano Antonio Berardesca, che compose l’Historia di santo Felice martire et episcopo di Nola nel 1560 ossia prima della scoperta della struttura muraria, non fornisce indicazioni sull’ubicazione della turrem sine tecto. All’identificazione con la “fornace” di san Gennaro contribuì, con ogni probabilità, il rilievo che all’episodio era stato dato nelle Vitedel santo pubblicate, nella seconda metà del Cinquecento, da Davide Romeo e Paolo Regio; quest’ultimo in particolare segnalò che la “fornace” era ubicata «fuor la città di Nola», secondo quando avrebbero pedissequamente ripetuto gli eruditi del Sei e Settecento. Nel 1630 Paolo Gualtieri diede alle stampe un volume sui martiri calabresi, nel quale menzionò l’esistenza nel santuario di Cimitile di “fornaci” ove, secondo la tradizione, sarebbero stati arsi numerosi santi. Questa testimonianza è molto significativa perché attesta che, nell’arco degli oltre cinquant’anni che separano la pubblicazione del suo volume (1630) dall’uscita dell’opera di Regio (1573), il rinvenimento della struttura muraria a Cimitile aveva contribuito alla nascita della leggenda che nel santuario si conservasse una “fornace” utilizzata per il martirio dei cristiani.

Prima di analizzare questa presunta “fornace”, conviene soffermarsi sulla data della scoperta e sulla sua ubicazione all’interno del santuario di Cimitile. La più antica testimonianza relativa al rinvenimento della struttura risale al 1644, allorché il canonico nolano Andrea Ferraro scrisse che «essendo stata per l’adietro coverta dalla terra ivi portata forse dall’acque che calando da monti sogliono al spesso partorir tale effetto fu a’ tempi nostri [...] ritrovata, mentre si toglieva via il terreno per appianar l’atrio che sta avanti di quelle basiliche». Molto probabilmente fu portata in vista all’epoca del curato Francesco Rossetta che resse la parrocchia di Cimitile dal 1610 al 1632. Ferraro è anche il primo autore che mette in relazione la “fornace” con il martirio di san Gennaro e identifica l’adiacente ambiente con il “carcere” ove il santo sarebbe stato imprigionato. Le due strutture, come ricorda con vivo compiacimento, «furono visitate più volte con divota processione dal capitolo» nolano in occasione dell’eruzione del Vesuvio del 1631. Questa precisazione consente di assegnare la scoperta della “fornace” a un’epoca anteriore (sia pure di non molto) al tragico eventoche, com’è noto, rappresentò un momento forte nelle relazioni tra san Gennaro e la società napoletanae creò di fatto la grande iconografia ianuariana. Ferraro, nel segnalare che per intercessione del santo Nola fu liberata «da tanto danno per la fornace e carcere che ivi sono», aggiunge che il capitolo nolano fece riparare i danni causati dall’eruzione del Vesuvio e vi appose un’epigrafe commemorativa.

Stando alle informazioni del canonico, la “fornace”, «arsa dalle fiamme e affumigata», era «posta in mezzo di due molto piccole camerette a volta» e sorgeva all’esterno della navata sinistra della Basilica di San Felice. In particolare prospettava sull’atrio, altrimenti detto “gran cortile”, che si apriva tra la Basilica, la Cappella di Santa Maria degli Angeli e la Chiesa di San Giovanni. Nel 1676 il preposito Guadagni scriveva che nella “fornace”, contigua al “carcere”, «secondo narrasi nelli Breviarij, e Martologij, fù gettato san Gennaro Vescovo di Benevento [...], e tutti quelli Martiri, che furono nella Provincia di Campagna, anzi di tutto il regno, condennati al fuoco: non leggendosi ch’in altro luogo si trovasse simil Fornace, e tant’antica. La quale [...] s’è mantenuta, ad onta de’ terremuoti, inondationi de’ torrenti, fuoco del vicino Vesuvio, incursioni, e saccheggiamenti de’ ne- mici, salva, ed intiera». Qualche anno dopo il preposito precisava che la “fornace” era «apena capace [...] a capire dieci uomini che stian anco alla erta». Nel 1747 il padre somasco Gianstefano Remondini scriveva che la “fornace” ha la «forma di torre rotonda, il di cui diametro interiore è d’otto palmi di lunghezza, ed à presentemente undici palmi di altezza in quella parte, che sembra più intera; è vuota insino a terra; e scoperta al di sopra [...]. È tutta continuata la sua fabbrica fino all’altezza di cinque palmi, e quindi verso il mezzodì s’apre con una porticella tre palmi larga, ed alta, quant’è la fornace, per comodo sicuramente d’empire il vuoto suo fondo fino a quell’altezza, che si vuole, di una catasta di legna, e darle fuoco».

Tuttora visibile all’interno di un ambiente circolare ubicato a nord della navata sinistra della Basilica di San Felice, la cosiddetta “fornace” è una struttura a sezione ogivale (diametro 2,45 m; altezza 2,73 m) con paramento costituito da corsi orizzontali di pietre rustiche di tufo giallo e laterizi. In mancanza di dati archeologici, non è possibile accertarne funzione e datazione; un utile terminus post quem per la sua costruzione è, però, fornito dalle stratigrafie murarie: la “fornace” risulta, infatti, costruita in appoggio alla parete dell’ambiente circolare che è realizzata con filari regolari di tufelli (opus vittatum)e conserva tracce della decorazione a fresco. Se la frammentarietà dei dipinti non consente di avanzare datazioni, il vano circolare può essere assimilato agli ambienti in opus vittatum annessi alla navata sinistra della basilica nova nella prima metà del V secolo. Gli eruditi nolani del Sei e Settecento riferiscono che la “fornace”, all’atto del rinvenimento, era ricolma di terreno alluvionale. Considerato che la navata destra della basilica nova (ubicata poco a ovest della “fornace”) fu invasa dal fango dell’esondazione verificatasi agli inizi del VI secolo, non va escluso che anche l’area ove sorge la “fornace” sia rimasta interrata nella stessa occasione. Ciò non vuol dire, però, che la struttura nota come “fornace” sia anteriore all’alluvione, dal momento che gli scavi degli inizi del Seicento potrebbero aver messo in luce soltanto l’ambiente circolare che per la particolare forma potrebbe essere stato interpretato come il luogo del martirio nolano di san Gennaro. Qualora questa circostanza fosse appurata con opportune indagini archeologiche, avremmo la prova che la cosiddetta “fornace” fu costruita all’interno dell’ambiente circolare solo in età moderna, per salvaguardare la sacralità del luogo e incrementare il culto ianuariano. D’altra parte l’espressione usata da Ferraro nel 1644 per descrivere la “fornace” («guarda l’occidente»)sembra alludere alla porta del vano circolarepiuttosto che alla struttura muraria che sorge al suo interno; quest’ultima, come precisava Remondini nel 1747, aveva, infatti, la “porticella” a sud.

Ubicato a est della “fornace”, il cosiddetto “carcere” di san Gennaro è citato per la prima volta dal canonico Ferraro nel 1644. Come già detto, l’esistenza di presunte carceri di martiri nel santuario di Cimitile è, però, documentata sin dalla fine del Cinquecento. Il “carcere” di san Gennaro all’epoca di Ferraro era collegato, mediante una porta, alla navata sinistra della Basilica di San Felice; il passaggio non era diretto ma avveniva attraverso un breve corridoio che immetteva anche nell’ambiente circolare che accoglie la “fornace”. Sulla porta del “carcere”, come ricorda Ferraro, era dipinta «l’effigie» di san Gennaro; stando all’iscrizione (Hinc eductus ante Rhedam Praesidis | Puteolos rapitur extincturus videlicet sanguine Vesuvii | globos) che corredava l’immagine, doveva trattarsi dell’episodio del trasferimento a Pozzuoli dinanzi al carro di Timoteo. L’epigrafe e il dipinto andarono perduti in occasione del crollo della navata sinistra del- la basilica che fu causato dal terremoto del 1694; seguì la ricostruzione della parete, nella quale venne aperto un nuovo accesso che immetteva direttamente nel “carcere”, così come si vede tuttora.

L’interno del “carcere” che nel 1676 appariva «fatto à volta, oscuro oltre- modo, e tenebroso», non ha, invece, subito sostanziali modifiche. L’ambiente, con volta a botte e pianta quadrangolare (3x8 m), ha il pavimento in malta e le pareti rivestite da uno strato di cocciopisto. La circostanza che il “carcere” ha un orientamento divergente rispetto alla navata della Basilica di San Felice, ma è quasi parallelo alla navata destra della basilica no- va, sembra indicare che l’ambiente appartiene proprio a quest’ultimo edificio (analogamente al vano circolare che accoglie la “fornace”). Il “carcere” corrisponde, con ogni probabilità, a una delle cisterne che, come scriveva Paolino di Nola, approvvigionavano le fontane del vicino atrio della basilica nova; negli angoli dell’ambiente e alla base delle pareti corrono, infatti, dei ringrossi a sezione convessa che fanno pensare a un accorgimento per evitare il ristagno dell’acqua.

A nord della “fornace”, lungo il lato orientale del cortile, gli eruditi del Sei e Settecento segnalavano l’esistenza di altre “carceri”. Il primo a farne menzione è il preposito Guadagni che, tra il 1676 e il 1688, provvide a ripulirle dal terreno alluvionale che le aveva quasi completamente riempite; grazie alla sua testimonianza sappiamo che il «vasto carcere sotterraneo» aveva «molte porte [...] e comprendeva molte carceri, che giravano intorno al Cimitero». Menzionate ancora da Remondini nel 1747, allorché erano nuovamente riempite di terra, le cosiddette “carceri” nel 1901 apparivano come «un fabbricato con porta murata». Gli scavi del 1933-34, oltre a mettere completamente in luce il paramento in opus vittatum in cui si aprono quattro varchi murati, hanno evidenziato che le “carceri” sorsero sui resti degli ambienti annessi alla navata destra della basilica nova.

Le ricerche archeologiche condotte tra il 1933 e il 1934 hanno dimostrato, l’appartenenza alla basilica nova anche delle due colonne che, all’epoca del canonico Ferraro, emergevano parzialmente dal terreno nel “gran cortile” su cui prospettavano la “fornace” e la Basilica di San Felice. Alterando la testimonianza di Capaccio, che aveva riferito l’esistenza di colonne alle quali venivano legati i martiri, Ferraro non si fece scrupolo di affermare che lo stesso san Gennaro sarebbe stato legato a una delle colonne per essere flagellato; ripresa da diversi autori tra Sei e Settecento, la supposizione fu decisamente respinta da Nicolò Carminio Falcone. Anteriormente al 1747, le due colonne vennero coperte «tutto intorno di fabbrica con lasciarne solamente una picciola parte, come in una fenestrina, scoverta alla pietà di coloro, che desideran vederle, e di toccar su d’esse le proprie corone, o medaglie», onde evitare che venissero danneggiate. Ancora «vestite di fabbrica» alla fine del Settecento, le due colonne sono state in seguito isolate e completamente rimesse in luce.

Per consentire le pratiche del culto liturgico a san Gennaro, nel corso del Seicento la “fornace” e il “carcere” furono inglobati in una cappella, com’era avvenuto, tanto per citare un celebre esempio, a Catania con i presunti luoghi del martirio di sant’Agata. L’accostamento è quanto mai efficace se si considera che, come sottolineava Pompeo Sarnelli, san Gennaro e sant’Agata si erano rilevati «sperimentati argini divini contra gl’Incendi, uno del Vesuvio, l’altro del Mongibello». Discordanti stesso testo fu dipinto anche sull’intonaco presso la “fornace”. Tra il 1700 e il 1747 l’intonaco fu danneggiato per realizzare due filari di fori: uno fu creato a sud della “fornace”, mentre l’altro nell’angolo tra questa struttura e la scala che conduceva alla soprastante cappella; i fori ospitavano i travetti lignei (fissati anche nel pavimento) del «bel lavorato cancello di noce» che, anteriormente al 1747, venne sistemato intorno alla “fornace” affinché i fedeli non potessero prelevarne «per reliquia qualche petruccia». Nel 1747 la cappella, a pianta quadrata e con ingresso a ovest, appariva «per alcuni gradi dal piano del suo cortile sollevata»; «dall’un de’ suoi angoli vicino alla porta», grazie a una scala, si scendeva nel sottostante ambiente circolare con la “fornace”. Quest’ultimo, tuttavia, era visibile anche dall’edificio di culto attraverso «una spaziosa ben lavorata rotonda grata di ferro fermata nel mezzo del pavimento»; da un’«altra consimil grata, benchè di molto più picciola», sistemata «parimente in terra dalla parte della pistola dell’altare», si poteva ammirare il sottostante “carcere”.

Le testimonianze analizzate attestano una certa discontinuità nel culto ianuariano a Cimitile/Nola. Se il carattere isolato del racconto di Uranio e dell’immagine di san Gennaro nella Cappella dei Santi Martiri può dipendere dalla carenza delle fonti disponibili per l’alto medioevo, l’interruzione del culto nel basso medioevo e nella prima età moderna, periodo per il quale siamo meglio documentati, sembra effettiva. Resta da appurare quanto la discontinuità sia dovuta alla mancanza di quelli che Peter Brown ha definito gli “impresari” del santo. Tra questi non sembra possa essere elencato il vescovo Leone III (fine IX-inizi X secolo) che nel programma iconografico della Cappella dei Santi Martiri dovette impegnarsi più nello sforzo di legittimare la sua elezione, che nel tentativo di promuovere il culto dei santi; in ogni caso san Gennaro è uno tra i tanti personaggi a essere raffigurati nella cappella e peraltro in una posizione piuttosto marginale.

Ben diverso è, invece, il ruolo svolto a partire dagli inizi del XVII secolo dai patrocinatori del culto ianuariano a Cimitile. In primo luogo questo compito venne svolto dai canonici della cattedrale di Nola che, in quegli anni, amministravano il santuario e avevano tutto l’interesse a farne lievitare la fama. Quando nel 1675, a seguito della decennale vertenza rotale tra il capitolo nolano e il preposito Guadagni, la parrocchia di Cimitile riebbe la sua autonomia, il culto di san Gennaro acquisì una nuova fisionomia con la graduale sostituzione della componente civile e aristocratica a quella ecclesiastica. Un ruolo di primo piano nella promozione del culto ianuariano ebbe Tommaso Caracciolo, principe di Forino, che in occasione della peste del 1656 si rifugiò a Cimitile, presso il genero Gentile Albertini, «signor utile» del casale. Deputato del Tesoro di San Gennaro sin dal 1647, Tommaso Caracciolo fece costruire nel santuario di Cimitile la Cappella di San Gennaro con fondi propri e con elargizioni della città di Napoli; la presenza del quadro raffigurante S. Gennaro che esce illeso dalla fornace si ricollega all’analogo dipinto eseguito nel 1646 da Jusepe de Ribera (detto lo Spagnoletto) per la cappella del Tesoro annessa al duomo napoletano. L’impegno dell’amministrazione della capitale per la promozione del culto ianuariano a Cimitile si manifesto con maggiore intensità nel 1700, allorché provvide a riparare i guasti causati alla Cappella di San Gennaro dal terremoto dell’8 settembre 1694 che non aveva danneggiato la sottostante “fornace”. Un ruolo non secondario ebbero gli Albertini, principi di Cimitile; detentori del patronato sulla Basilica di San Felice sin dal 1516, mostrarono grande interesse per le sorti della parrocchia durante la lunga vertenza rotale e furono particolarmente attenti al culto di san Gennaro a Cimitile. Nel 1713, come attesta lo stemma di famiglia, Giuseppe Albertini finanziò l’esecuzione della stampa raffigurante San Gennaro che esce illeso dalla fornace  e destinata al volume di Falcone. Tra il 1715 e il 1718, per la particolare devozione verso il santo, il principe e la moglie, Isabella Lomellini, fecero battezzare tre dei loro figli nella cappella cimitilese del «Glorioso S. Gennaro».

Sebbene nel 1757 il bollandista Giovanni Stilting, nel presentare il ricco dossier agiografico di san Gennaro, avesse fatto riferimento con molta prudenza alla “fornace” di Cimitile, la tradizione nel corso del Settecento andò sempre più consolidandosi, tanto da entrare finanche nelle pubblicazioni a carattere enciclopedico. Gli eruditi nolani, per difendere l’autenticità dei luoghi ianuariani di Cimitile, diedero vita a un’infervorata polemica contro gli Acta Bononiensia e il suo editore, Alessio Simmaco Mazzocchi. A dispetto della sentita venerazione, la Cappella di San Gennaro venne distrutta alla fine del Settecento (insieme a diverse strutture paleocristiane e medievali) per far posto alla parrocchiale di Cimitile. Il progettista, l’architetto Gaetano Barba, fece, però, attenzione a salvaguardare la “fornace” e il “carcere” che vennero a trovarsi sotto il presbiterio del nuovo edificio. Dietro questa iniziativa s’intravede l’operato del principe Gaetano Albertini che, insieme al preposito Cipriano Rastelli, finanziò la costruzione della nuova chiesa.

Nonostante le trasformazioni intervenute, la devozione per i presunti luoghi del martirio di san Gennaro si mantenne viva, analogamente all’interesse degli studiosi. Mi riferisco, ad esempio, a Giovanni Scherillo che nel 1847 segnalava l’esistenza a Cimitile di «una fornace di romana costruzione, che vogliono essere stata quella in cui fu rinchiuso ad ardere san Gennaro». Trent’anni dopo l’abate François Lagrange, oltre a menzionare le prigioni e i luoghi di supplizio per i cristiani, additava «la fournaise ou fut jeté le plus illustre de tous, le grand Januarius», mentre nel 1883 Rohault de Fleury rilevava che i costruttori della chiesa parrocchiale avevano voluto «placer le choeur audessus du four de saint Janvier, comme sur une sorte de confession». A Cimitile, intanto, venuto meno l’interessamento della nobiltà e delle gerarchie ecclesiastiche, il culto ianuariano rimaneva ormai confinato unicamente nell’ambito della devozione popolare, come documenta il dipinto raffigurante l’Immacolata, S. Gennaro e un santo vescovo fatto eseguire dai confratelli della Congrega del Santissimo Sacramento negli anni Ottanta del XIX secolo nella Basilica di San Tommaso. Secondo la consueta iconografia, già attestata a Cimitile dall’affresco cinquecentesco, il santo con la mano sinistra sostiene un libro su cui poggiano le due ampolle del sangue. Mancano elementi per riconoscere l’altro santo vescovo, ma, qualora fosse possibile identificarlo con Paolino di Nola, avremmo un indizio dell’ininterrotta percezione del forte legame che, stando alla testimonianza di Uranio, univa il Nolano a san Gennaro.

Se, agli inizi del Novecento, Matilde Serao scriveva con convinzione che a Cimitile si conservavano «la prigione di San Gennaro, e, i ruderi di quell’inane forno crematorio», la tradizione popolare è rimasta a lungo vivaprima di cedere il passo a interpretazioni più o meno fantasiosee talora anche di cattivo gusto. Nell’attesa che un’indagine archeologica possa chiarire una volta per tutte la funzione e l’epoca di costruzione delle due strutture, si può solo ipotizzare che il “carcere” corrisponde a uno dei serbatoi che approvvigionavano le fontane dell’atrio della basilica nova (inizi V secolo) e che la “fornace” sorge all’interno di un ambiente circolare annesso alla navata destra della stessa chiesa. Queste considerazioni ovviamente nulla tolgono alla solidità del culto ianuariano che, come abbiamo visto, a Cimitile/Nola vanta una secolare tradizione. La cerimonia organizzata dalla Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro il 29 ottobre 2005, in occasione del XVII centenario del martirio del santo, rappresenta in tal senso un lodevole tentativo di rinvigorire la devozione per i “luoghi ianuariani” di Cimitile.